Fotografia © Patrizia Fratus
“Racconto storie, raccontare storie da forma.
L’uomo deve prima immaginare il terreno su cui intende collocarsi e l’arte, ha un’azione propedeutica all’immaginazione.
Nel mio lavoro, riverifico il passato per proporre nuove prospettive, proposte positive rispetto all’esistente,
per costruire insieme nuove immagini e quindi nuove possibilità.”
(Patrizia Fratus)
Trama e ordito nel lavoro dell’artista bergamasca Patrizia Fratus (Palosco, 1960), ma non solo, anche fili di lana, ciuffi d’erba, stoffe, parole, persone. E proprio le persone diventano componenti fondamentali, necessari per iniziare il gesto artistico e innestare una serie di reazioni concatenate, come la fitta trama della maglie tipiche della sua ricerca.
Chi decide della mia vita? Questa era la domanda posta per il progetto Viva Vittoria, realizzato il 25 novembre 2015 in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne a Brescia, dove l’artista, insieme a tutta l’organizzazione e la città stessa, ha chiesto alle persone (uomini e donne, indistintamente) di produrre un modulo a maglia che poi sarebbe stato unito a tutti gli altri in una enorme coperta destinata appunto a coprire Piazza Vittoria. Una metafora questa di una dichiarazione strutturata alla non violenza e del prendersi cura come concetto di partenza.
Sulla scia di Viva Vittoria in primis e di molte altre opere relazionali che l’artista ha progettato e realizzato, in questo particolarissimo periodo storico caratterizzato da una lontananza fisica e da una difficoltà psicologica, Patrizia Fratus fa a tutti noi un appello collettivo per farci sentire parte di una comunità che non si è mai smembrata ma, anzi, che ora ha bisogno di vivere più che mai.
Si tratta di E poi ci abbracceremo, una vera e propria azione collettiva che parte da noi singoli dall’intimità della nostra casa, per concentrarci su un qualcosa di “altro”, per non sentirci soli, tutti virtualmente connessi da questa piccolo pezzo di stoffa che tessiremo.
L’ha intervistata Melania Raimondi per WOWomen:
MR: Parlaci di te. A cosa ti ispiri per i tuoi particolari lavori relazionali e ambientali?
PF: Mi ispiro al mondo che vorrei, quel luogo che non immagino su di un’isola ma attorno a noi. E, mi ispiro più a quello che possiamo che non a quello che dobbiamo.
MR: Chiami le tue opere relazionali Opera/Azione, una definizione che, possiamo dire, che non rientra nelle “tipologie artistiche tradizionali”. Raccontaci che cosa significa Opera/Azione.
PF: Noi siamo le autrici della nostra vita e citando Giordano Bruno: “La nostra forza è la capacità di trasformare i pensieri in azioni, con le nostre mani.”
Quindi, dopo il pensiero/intenzione è necessaria un’azione che genera la trasformazione.
MR: Qual è l’ultima Opera/Azione a cui hai invitato il pubblico in questo particolare periodo storico?
PF: E poi ci abbracceremo, ho bisogno di pensare a questo mentre vivo nell’isolamento. Mai, come quando qualcosa ci viene tolta, ne capiamo il valore.
Le mie persone care lontane, le donne con le quali stavo lavorando, inaccessibili, mi ha assalito uno struggente desiderio di abbracciarle.
Ogni giorno che passa, tutte le vite che stanno passando, non fanno che aumentare questo bisogno, ne ho una tale carenza che credo abbraccerò tutte/i quelle/i che incontrerò per il resto della vita.
Ora, siamo distanti, ma voglio, dobbiamo ricordarci che siamo tutte/i appese/i ad un filo della stessa rete, e con un filo, di qualsiasi sostanza abbiamo in casa, nel mentre, diamo forma ad un’opera.
Una parte ciascuna/o, cosi come ognuna/o di noi è singolarmente parte dell’insieme.
Così affronto ogni giornata difficile, con un’immagine in testa, vi vedo arrivare, una ad una, e poi, poi ci abbracceremo.
MR: WOWomen vuole diffondere la cultura e l’arte prodotta da donne e da tutti coloro che vogliono interrogarsi sull’identità femminile, per consolidare significati e sviluppare la necessità di ancorare la cultura al femminile cercando reali equilibri. Ti ritrovi, anche in parte, in questa poetica? Hai già realizzato dei progetti relativi al tema “donna”?
PF: Mi trovo perfettamente nel: “Cultura e Arte prodotta da donne e tutti coloro che vogliono interrogarsi sull’identità femminile”. Così come sulla necessità di un equilibrio più che di una contrapposizione.
Penso anche che stia, in prima istanza a noi capire e scoprire le nostre possibilità/responsabilità.
Mi sono sempre chiesta come sarebbe stata la mia vita altrimenti, cosi come la vita delle donne che mi hanno preceduta, fuori dalla cultura Abramitica nella quale siamo nate.
Ogni mio lavoro indaga le ragioni della violenza sulle donne e cerca modalità concrete di emancipazione, mentale, sociale, economica. Cerco modi per costruire altro, un eu-topos in mezzo a noi.
MR: Sul tuo sito si legge “Nel mio lavoro, riverifico il passato per proporre nuove prospettive, proposte positive rispetto all’esistente”. Vuoi regalare un pensiero positivo alle persone che leggeranno questa intervista?
PF:Un giorno, le persone leggendo la storia vedranno in prospettiva come, in questi ultimi due millenni, dalla narrazione manchino le donne.
Certo ci siamo nelle storie, siamo principalmente bellissime, qualche esempio di santità e sacrificio e tante tante tentazioni.
I Greci dicevano che la nostra storia è scritta nelle stelle, quel che avviene sotto il cielo, là resta scritto, anche quando gli scritti vengono bruciati.
La storia è fatta di stratificazioni, ogni cosa è cristallizzata nel presente, e lì vado a cercare. Perché sapere che non è “sempre stato così” permette di immaginare ancor meglio quanto può essere diverso da adesso. Lì vado a cercare le origini della violenza sulle donne cosi come la sacralità del nostro corpo e di ogni essere vivente, noi siamo natura.
E so, che insieme possiamo scrivere un nuovo capitolo, insieme.
Melania Raimondi
Se vuoi partecipare anche tu all’Opera/Azione “E poi ci abbracceremo”
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Patrizia Fratus nasce a Palosco nel 1960 da due giovani contadini urbanizzati, prima di cinque fratelli, dopo le scuole dell’obbligo accede direttamente al mondo del lavoro, senza mai smettere di leggere, documentarsi e ricercare. Adolescente, con altre ragazze e ragazzi fonda il ”collettivo” dove si pratica autocoscienza e politica.
Tornerà sui banchi di scuola a 23 anni, dopo la prima figlia, per certificare l’abilità sartoriale appresa dalla propria madre. Dopo alcune esperienze nel mondo dell’alta moda e dopo il secondo figlio, si iscrive all’accademia Marangoni di Milano dove si diploma nel 1999.
Seguono alcuni anni di insegnamento in istituti professionali per poi passare nella sartoria del Teatro alla Scala dove collabora per due anni.
Dopo tanti tessuti, sperimenta il riciclo della carta che la porterà a debuttare nel 2004, per la prima volta come artista, a Parigi, nella galleria Edgar.
L’anno dopo è con un istallazione, sugli spalti di Sant’Agostino a Bergamo per Celluloidee. Negli anni a seguire espone in gallerie a Brescia, Milano, Londra e Parigi. Vince il premio Nocivelli e ArteCairo nel 2009.
Torna quindi al suo primo tramite, il tessuto, la tela, con la quale realizza la prima Cometumivuoi, una bambola nata dalle continue sollecitazioni della cronaca di femminicidio.
Inizia un percorso di studio di storia dell’arte con Salvatore Falci, dei Piombinesi e di Oreste, che la introduce a Beuys. E con Lui, con Beuys, trova i modi e le parole per dare forma ad un’esigenza forte.
Autocoscienza e politica, con uno strumento nuovo e antico come pochi, il filo dell’arte.
Dal 2012 lavora a progetti di arte relazionale e collabora con case di accoglienza, inizia anche un’intensa collaborazione con le scuole, dall’infanzia ai licei, alle accademie per e con le quali realizza progetti d’arte relazionale e ambientale.
Il molto tempo a contatto con le donne vittime, la porta ad indagare le origini del fenomeno e allo stesso tempo a trovare possibili strategie d’emancipazione (per emanciparvicisi) cominciando da se, dalle proprie responsabilità come dalle proprie possibilità.
Simone de Beauvoir diceva che la prima forma di emancipazione per una donna è l’emancipazione economica, questo era l’inizio. La sua esperienza le ha insegnato che molte donne, non solo non sono autosufficienti e quindi non sono libere ma, ancor più, non sanno di poterlo essere.
Il suo lavoro quindi intende l’arte come strumento di sperimentazione intellettuale ed empirica di consapevolezza, autosufficienza e autodeterminazione, strumenti necessari per una giusta e santa emancipazione femminile e umana.
Crede che “l’arte non è uno specchio per riflettere la realtà, ma uno scalpello per darle forma”.